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La sindrome dell’outlet, come salvare il lusso in Italia

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L’abbiamo già visto nella moda. Il lusso inizia come prodotto di qualità, poi si trasforma in status symbol, si massifica, e cade in un baratro di dozzinalità. L’esempio è lì, vicino, ancora fresco, eppure ci si ricasca sempre. Inevitabilmente.

Ho avuto la fortuna, negli ultimi 10 anni, di lavorare in diversi ambiti del design del lusso, dalle barche, alla moda, all’architettura. E per alti livelli intendo a progetti in cui la qualità era un valore indiscusso ed imprescindibile, arrivando ad un feticismo del dettaglio, che, e questo è vero, rasentava l’insensatezza.

D’altro canto se apriamo la Treccani e cerchiamo la definizione di lusso, troviamo: “Sovrabbondanza, eccesso nel modo di vivere”, ma anche:”sfoggio di ricchezza, di sfarzo, di magnificenza”. Connotati non necessariamente positivi, sicuramente non molto vicini al campo semantico del buon gusto, almeno nell’accezione Europea del termine. Ed è proprio in Europa che da un paio di secoli a questa parte nascono le “icone” del lusso come le conosciamo oggi, attraverso un lungo processo di definizione di alcuni valori, convenzionalmente riconosciuti da una vasta maggioranza della popolazione mondiale.

È incredibile come valori così soggettivi ed aleatori come eleganza, bellezza, stile, abbiano attecchito a tal punto da essere stati codificati e riconosciuti come validi attraverso la maggior parte degli strati sociali.

Ma facciamo un passo indietro. Fin dalla notte dei tempi le cose rare e costose sono state utilizzate come strumento per sottolineare uno status di privilegio. Non per nulla il lusso spesso è accostato al concetto di “esclusività”.

Esclusivo è un termine che, a mio modo di vedere, viene spesso utilizzato con leggerezza, senza apparentemente considerare l’evidente significato di esclusione (appunto). “Un soggiorno in una località esclusiva” significa letteralmente che quella località è disponibile solo per alcune persone, mentre tutte le altre sono escluse. Un concetto assolutamente normale in natura (non mi si dia anacronisticamente del comunista), ma che convive pacificamente con la retorica, altrettanto universalmente accettata, dell’uguaglianza sociale a tutti i costi.

Il lusso, che trovava inizialmente espressione nell’utilizzo di materiali rari ed appariscenti, nei secoli si è arricchito di ulteriori contenuti sempre più sofisticati, come la maestria dell’esecuzione, l’appartenenza a determinate tradizioni e culture ecc.

Oggi non si può parlare di lusso senza parlare di servizio. Tutti noi sappiamo che non è più sufficiente proporre un prodotto piacevole esteticamente, realizzato con materiali ricchi, e una manifattura di qualità. Per cominciare, il prodotto deve essere esclusivo, quello si, ma la sua popolarità deve essere di massa. Questo presuppone un apparato gigantesco di marketing e pubbliche relazioni, di cartelloni faraonici, schiere di (spesso opinabili) testimonial internettiani e GigaByte di post instagrammatici. Tutto per raggiungere il maggior numero di persone possibile. Come dire: “se devo avere una cosa che posso avere solo io… è meglio se tutti quando la vedranno, sapranno di essere dei poveracci”.

Battute a parte, lo studio dell’immagine del prodotto ed il suo posizionamento del mercato, sono passati da un ruolo di “stimolo della vendita”, ad essere parte integrante delle qualità appetibili del prodotto, che avendo un’immagine ben studiata, ha indubbiamente un valore percepito maggiore.

Ma il vero approccio concreto si ha nel momento dell’acquisto, ed è lì che entrano in gioco le componenti emozionali più importanti. L’immagine del punto vendita, quanto il venditore faccia o meno sentire a proprio agio, ma comunque al centro dell’attenzione. Per non parlare di come il prodotto venga consegnato, e della disponibilità, nel post vendita, a fornire assistenza o porre rimedio ad eventuali difetti o malfunzionamenti.

Soprattutto nei prodotti artigianali, è abbastanza frequente che possano sopraggiungere inconvenienti, o che siano richieste modifiche o migliorie ai prodotti. Questo è normale, e non dovrebbe influire sulla qualità del bene di lusso, ovviamente se il servizio di assistenza è puntuale e completo.

Tutto questo ha un costo, ed è una componente fondamentale del pacchetto del prodotto di lusso. Ed è qui che entra in gioco la “sindrome dell’outlet”. La tendenza a lavorare con sconti da ingrosso, pretesi da clienti ormai abituati ad avere il "grande nome" a prezzi da centro commerciale, porta, per forza di cose, a fare dei tagli, a volte anche considerevoli, a questo pacchetto. Meno margini significa che per restare in vita, un venditore debba aumentare i volumi di vendita. Questo si traduce immediatamente in un rapporto più sbrigativo con il cliente, a discapito dell’esperienza di esclusività dell’acquisto, e ad un servizio lento e lacunoso nella fase post vendita.

Certo in questo modo nel breve periodo i fatturati dei produttori aumentano (sono i primi ad avallare silenziosamente questo sistema), ma nel lungo? Clienti insoddisfatti, perdita di prestigio ed esclusività del brand, perdita di allure dell’intero settore. Si, perché per definizione stessa di lusso, nel momento in cui una categoria di prodotti cessa di essere un simbolo di esclusività, cessa anche di essere desiderata dai suoi potenziali compratori.

Svendere il lusso, trattarlo come merce comune, significa non comprenderlo, e non avere rispetto per le nostre radici e per il nostro futuro.

L’Italia stessa ed il suo lifestyle sono universalmente riconosciuti come un’icona del lusso. Fa indissolubilmente parte della nostra identità e sta soltanto a noi fare in modo che questa enorme eredità possa continuare ad evolversi e portare bellezza e cultura nel mondo.

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Il difetto della tecnica

Gli effetti della logica tecnicistica sulla produzione di manufatti ci fanno perdere valore e desiderio di interrogarci su ciò che ci circonda.

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Passeggiando per le vie di certi paesi italiani, spesso ho provato una sensazione di disagio, molto velata per la verità, nel passare di fronte ad architetture contemporanee, inserite in un contesto antico.

Il motivo di questo disagio inconsapevole, però, non l’ho mai preso seriamente in considerazione, fino a tempi molto recenti.

Di ritorno da un periodo di due anni in cui, per lavoro, ho vissuto prevalentemente all’estero, sono stato sopraffatto dalla profondità della bellezza dell’architettura pre-bellica italiana.

Ricordo che per le prime settimane giravo, in luoghi per altro a me molto familiari, col naso all’insù, e la bocca aperta, come un diabetico in pasticceria.

Non avrei mai pensato, sinceramente, che mi sarei mai emozionato per un intonaco scrostato o per una trave consumata. Nè mi sono mai accorto di quale mondo meraviglioso mi aveva sempre circondato. Ho cominciato a fantasticare sulle persone che avevano commissionato il tal palazzo, sulla vita che se ne svolgeva appena costruito e tante storie simili.

Tant’è che dopo giorni e giorni, placatosi l’effetto delle endorfine, ho potuto razionalizzare la situazione, ed ho cercato di capire cosa renda emozionante un muro bianco costruito nel 16° secolo, e banale (e quasi fastidioso), una parete del tutto analoga, costruita (o peggio ancora “restaurata”) oggi.

L’errore. Il difetto. L’imperfezione.

Alcuni detrattori subito obietteranno che l’edificio o il manufatto antico non sia stato creato cosi come lo vediamo noi oggi, ma che la sua estetica attuale sia il frutto di continui rimaneggiamenti e del logorio dovuto all’utilizzo.

Si. Ma non solo. Credo che tutti coloro che siano in grado di leggere e scrivere si siano ormai da tempo resi conto che viviamo in una sorta di utopia tecnocratica. Fin negli strati sociali più bassi, siamo tutti permeati da una tensione ossessiva verso la perfezione. Sembriamo intrappolati in una sorta di neo-manierismo ecumenico, in cui la padronanza della tecnica e l’allontanamento sdegnoso dalla fallibilità umana, siano gli unici valori oggettivanti.

Pensate all’imbarazzo che proviamo quando non riusciamo a far funzionare un apparecchio elettronico al primo tentativo e senza istruzioni. Inaccettabile! L’umano 2.0 sà far funzionare tutto, subito e bene.

Ma non è perché siamo diventati più intelligenti. Anzi. Semplicemente stiamo adeguando tutto quello che facciamo e produciamo, affinchè aderisca ad un'unica logica di funzionamento, la sola che conosciamo, la logica tecnica.

La logica tecnica è prevedibile, e quindi è amichevole. E chi la segue prevede (o pensa di essere in grado di farlo) tutto, o quasi, cercando di eliminare alla radice la possibilità di errore, nemesi assoluta dell’umano 2.0.

Errore, difetto, vulnerabilità, sono percepiti come valori negativi, da rifiutare senza riserva.

Ma è realmente così? E non è una domanda retorica. Anch’io per primo sono vittima, anzi figlio di quest’utopia tecnocratica.

Ma allora perché un fregio imperfetto scolpito nel marmo da un ignoto 2000 anni fa è sublime mentre una decorazione fresata con una macchina a controllo numerico oggi fa ribrezzo? Perché un intarsio del Maggiolini è arte mentre una decorazione simile fatta oggi è una pacchianata?

È l’imprevedibilità del tratto umano, la piega inaspettata che prende una linea, che trasforma un pezzo di legno , altrimenti buono per la stufa, in un racconto avvincente ed irresistibile, che ci tiene incollati, magari da millenni, al suo cospetto.

Ogni manufatto umano porta con se la storia dell’intera vita dell’uomo che l’ha realizzato. Dal livello di manifattura, dalle irregolarità, o dal virtuosismo di un particolare si può percepire il percorso duro e complesso professionale ed umano dell’artigiano, ma anche il suo gusto estetico ed il suo carattere. Contemporaneamente ogni oggetto, una volta consegnato al suo uso, funziona da registratore. Come un attento biografo, appunta su se stesso i segni della vita che si svolge intorno ad esso. Storie di famiglie, di amanti, di intrighi o chissà cos’altro.

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