Il difetto della tecnica

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Passeggiando per le vie di certi paesi italiani, spesso ho provato una sensazione di disagio, molto velata per la verità, nel passare di fronte ad architetture contemporanee, inserite in un contesto antico.

Il motivo di questo disagio inconsapevole, però, non l’ho mai preso seriamente in considerazione, fino a tempi molto recenti.

Di ritorno da un periodo di due anni in cui, per lavoro, ho vissuto prevalentemente all’estero, sono stato sopraffatto dalla profondità della bellezza dell’architettura pre-bellica italiana.

Ricordo che per le prime settimane giravo, in luoghi per altro a me molto familiari, col naso all’insù, e la bocca aperta, come un diabetico in pasticceria.

Non avrei mai pensato, sinceramente, che mi sarei mai emozionato per un intonaco scrostato o per una trave consumata. Nè mi sono mai accorto di quale mondo meraviglioso mi aveva sempre circondato. Ho cominciato a fantasticare sulle persone che avevano commissionato il tal palazzo, sulla vita che se ne svolgeva appena costruito e tante storie simili.

Tant’è che dopo giorni e giorni, placatosi l’effetto delle endorfine, ho potuto razionalizzare la situazione, ed ho cercato di capire cosa renda emozionante un muro bianco costruito nel 16° secolo, e banale (e quasi fastidioso), una parete del tutto analoga, costruita (o peggio ancora “restaurata”) oggi.

L’errore. Il difetto. L’imperfezione.

Alcuni detrattori subito obietteranno che l’edificio o il manufatto antico non sia stato creato cosi come lo vediamo noi oggi, ma che la sua estetica attuale sia il frutto di continui rimaneggiamenti e del logorio dovuto all’utilizzo.

Si. Ma non solo. Credo che tutti coloro che siano in grado di leggere e scrivere si siano ormai da tempo resi conto che viviamo in una sorta di utopia tecnocratica. Fin negli strati sociali più bassi, siamo tutti permeati da una tensione ossessiva verso la perfezione. Sembriamo intrappolati in una sorta di neo-manierismo ecumenico, in cui la padronanza della tecnica e l’allontanamento sdegnoso dalla fallibilità umana, siano gli unici valori oggettivanti.

Pensate all’imbarazzo che proviamo quando non riusciamo a far funzionare un apparecchio elettronico al primo tentativo e senza istruzioni. Inaccettabile! L’umano 2.0 sà far funzionare tutto, subito e bene.

Ma non è perché siamo diventati più intelligenti. Anzi. Semplicemente stiamo adeguando tutto quello che facciamo e produciamo, affinchè aderisca ad un'unica logica di funzionamento, la sola che conosciamo, la logica tecnica.

La logica tecnica è prevedibile, e quindi è amichevole. E chi la segue prevede (o pensa di essere in grado di farlo) tutto, o quasi, cercando di eliminare alla radice la possibilità di errore, nemesi assoluta dell’umano 2.0.

Errore, difetto, vulnerabilità, sono percepiti come valori negativi, da rifiutare senza riserva.

Ma è realmente così? E non è una domanda retorica. Anch’io per primo sono vittima, anzi figlio di quest’utopia tecnocratica.

Ma allora perché un fregio imperfetto scolpito nel marmo da un ignoto 2000 anni fa è sublime mentre una decorazione fresata con una macchina a controllo numerico oggi fa ribrezzo? Perché un intarsio del Maggiolini è arte mentre una decorazione simile fatta oggi è una pacchianata?

È l’imprevedibilità del tratto umano, la piega inaspettata che prende una linea, che trasforma un pezzo di legno , altrimenti buono per la stufa, in un racconto avvincente ed irresistibile, che ci tiene incollati, magari da millenni, al suo cospetto.

Ogni manufatto umano porta con se la storia dell’intera vita dell’uomo che l’ha realizzato. Dal livello di manifattura, dalle irregolarità, o dal virtuosismo di un particolare si può percepire il percorso duro e complesso professionale ed umano dell’artigiano, ma anche il suo gusto estetico ed il suo carattere. Contemporaneamente ogni oggetto, una volta consegnato al suo uso, funziona da registratore. Come un attento biografo, appunta su se stesso i segni della vita che si svolge intorno ad esso. Storie di famiglie, di amanti, di intrighi o chissà cos’altro.

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